Ascoltiamo il grido di Gaza
 

All’abominevole attacco subito il 7 ottobre 2023 Israele ha risposto con un’azione militare la cui sproporzione è diventata nel tempo sempre più evidente. L’uccisione indiscriminata di civili, molti dei quali donne e bambini, e la riduzione alla fame dell’intera popolazione della Striscia di Gaza sono inaccettabili.

Se all’inizio della guerra lo Stato ebraico poteva invocare la necessità di debellare Hamas, il cui cinismo nel condurre alla catastrofe la propria popolazione non va in nessun modo sottaciuto, il prolungamento delle operazioni belliche non sembra avere altro scopo che la pulizia etnica della Striscia, come peraltro dichiarato esplicitamente da diversi esponenti politici e militari israeliani. La situazione della Cisgiordania, dove la popolazione palestinese subisce sistematicamente gli abusi dei coloni e dell’esercito di occupazione, va nella stessa direzione.

A 20 mesi dallo scoppio delle ostilità, dopo la netta vittoria su Hezbollah in Libano, la caduta del regime di Assad, il rafforzamento della presenza sull’Hermon, l’annientamento dell’esercito siriano, i colpi inferti all’Iran e con la Striscia completamente isolata, non sono considerazioni di sicurezza a spingere il governo israeliano a una nuova operazione di terra a Gaza.

Recentemente, anche figure che in precedenza avevano sostenuto la ritorsione militare all’aggressione perpetrata da Hamas hanno preso posizione contro le scelte del governo israeliano. L’ex primo ministro Ehud Olmert, ad esempio, ha dichiarato chiaramente che quanto Israele sta compiendo a Gaza è «una guerra di sterminio». L’attuale catastrofe, tuttavia, ha radici profonde e non può essere ricondotta esclusivamente alle decisioni dell’attuale maggioranza di governo.

Per riprendere le parole usate in un’intervista dal Cardinal Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei Latini, non vogliamo essere neutrali, ma neppure parte dello scontro. Non possiamo in ogni caso restare indifferenti di fronte all’immane sofferenza della popolazione della Striscia di Gaza, e per questo, facendo eco alle parole di Papa Leone XIV, chiediamo che sia immediatamente fermata la disumanizzazione di cui essa è vittima.

dalla rivista Oasis29.5.2025

    Sebastião Salgado
 

 Sebastião Salgado, scomparso il 23 maggio a 81 anni a Parigi aveva scelto di essere un reporter delle realtà più scottanti, delle vite più dimenticate, della natura più vilipesa. Il tutto in bianco e nero.

Attraverso l’obbiettivo della sua macchina fotografica, ha lottato instancabilmente e per tutta la vita per un mondo più giusto, umano. A costo in qualche modo della propria vita: come fotografo che viaggiava costantemente per il mondo, nel 2010 in Indonesia aveva contratto (mentre lavorava al progetto Genesis) una forma acuta di malaria, le conseguenze della quale, quindici anni più tardi, lo hanno portato alla morte.

(Film documentario di Wim Wenders, sulla vita di Sebastião Salgado)

  Milano nascosta
 

Sabato 24 e domenica 25 maggio presso le Colonne di San Lorenzo in corso di Porta Ticinese a Milano, l’associazione Milano IncontraMi (MiM)  con il Coordinamento diocesano associazioni, movimenti e gruppi promuove l’evento “Milano nascosta“, una due giorni con a tema la carità come fioritura della fede all’interno della vita della Chiesa.

 L’evento coinvolge oltre 10 realtà di carità di Milano: testimonianze vive di un impegno concreto nel tessuto della città: sarà un’occasione unica per scoprire una Milano nascosta, fatta di incontri, storie inaspettate e bellezza autentica. Una mostra, uno spettacolo, spazi food & beverage allieteranno l’evento.

 

Funerale Papa Francesco

 

Sembrano due «uomini di buona volontà»,
il vecchio
e il giovane
seduti di fronte.

 

Stavolta è il presidente ucraino Zelensky quello con l’abito giusto, in nero e senza divisa militare; mentre il blu cobalto di Donald Trump non è esattamente il dress-code che era stato raccomandato dal Vaticano. Ma che importa? Lo scatto è storico. Piegati l’uno verso l’altro, su due semplici sedie,con le teste che quasi si toccano come in una confessione, nel mezzo di San Pietro, sullo sfondo una raffigurazione del battesimo di Cristo. Visto di profilo, il presidente americano sembra portare sulle spalle un peso, di anni e forse di responsabilità, che nello Studio Ovale placcato d’oro come un Country Club facilmente nasconde dietro una posa imperial-macho, appollaiato sulla punta della sua poltrona presidenziale. Zelensky, dal canto suo, ha un atteggiamento umile, sofferente, implorante; ma non spaventato come l’altra volta. Sarà che non c’era il «mastino-in-chief», JD Vance. Oppure sarà stata la mano di Dio. Ma questa foto
sembra già un miracolo. L’ultimo di Francesco? È ancora presto per dirlo. Potrebbe però essere l’inizio di quella «onesta trattativa» per la pace in Ucraina, auspicata con parole appropriate dal cardinal Re nella sua omelia in piazza. Innanzitutto perché i due, chiaramente, si sono ascoltati. Si vedeva dal body language, dalla gestualità delle mani, dalle sopracciglia aggrottate nello sforzo di comprendere l’altro, più che di esibire sé stesso.

Certo, c’è sempre dimezzo Putin. Lui, che la guerra l’ha cominciata, in San Pietro non ci può neanche entrare. In quegli stessi minuti stava infatti parlando di battaglie, non di pace. Annunciava da Mosca l’ennesimo successo sul campo nel Kursk, mentre il Cremlino ringraziava i poveri fantaccini nordcoreani, mandati a morire a migliaia di chilometri di distanza da casa, al servizio del neo-colonialismo russo.

Del resto, solo in San Pietro un incontro così straordinario poteva accadere. Ieri abbiamo visto di quante divisioni disponga il Papa: un patrimonio di autorità morale, influenza planetaria, proiezione universale che la Chiesa, pur con tutti i suoi umanissimi difetti e limiti, esercita ancora, come ormai nessun’altra organizzazione al mondo. È per questo che Roma è eterna, e conta ancora qualcosa nel mondo. Tutta quella gente, potenti di ogni nazione, compresi quelli che il Papa aveva preso a sberle («Chi costruisce muri e non ponti non può dirsi cristiano» era riferito a Trump). E tutta quella gente in piazza e per le strade di Roma, commossa e partecipe. Certo, sono venuti per Francesco, un uomo eccezionale sotto ogni aspetto. Per salutare le sue scarpe nere e il suo cuore candido. Nell’era dell’immagine anche i pontefici devono averne una che parli «urbi et orbi».

Ma Francesco è stato ciò che è stato perché era il capo di Santa Romana Chiesa. Quella stessa che abbiamo visto ieri rappresentare la sua liturgia millenaria, la messa in latino, l’incenso e i turiboli, le cotte e le mitre, la transustanziazione e la comunione, tutte quelle cose che di solito critichiamo perché sorpassate, non adatte ai tempi, aristocratico segno di distacco dalla realtà; e però, in fin dei conti, essenziali per esprimere la sostanza del messaggio cristiano. Che non è «vogliamoci bene», questo può dirlo chiunque; ma consiste nell’annuncio della salvezza per l’umanità, perché «Cristo morì per i nostri peccati e fu sepolto e resuscitò il terzo giorno», e così fece entrare nella storia dell’uomo il Regno di Dio, con la promessa della Resurrezione.

Dalla morte di Francesco fino a ieri, ci siamo tutti molto occupati di ciò che lui faceva nell’aldiquà. Dei poveri e degli ultimi ai quali sapeva parlare; delle guerre e dello sfruttamento dell’ambiente che sapeva condannare; dei migranti che, discendente di emigrati italiani egli stesso, voleva accogliere e abbracciare. Ma accompagnandolo nell’ultimo viaggio, ieri la Chiesa e i suoi fedeli hanno aperto una finestra sull’aldilà in cui è andato, e sul suo mistero: non è obbligatorio crederci per sentire la forza di redenzione che sprigiona. Se un cardinale poté convertire l’Innominato, volete che un Papa non possa convertire chi si fa la guerra? La Chiesa tratta una merce rara, si chiama speranza.

Per un caso del destino, o per un disegno divino, le esequie di Francesco sono coincise con il Giubileo degli adolescenti, e così ieri Roma era invasa da decine di migliaia di giovani, così clamorosamente diversi dai coetanei protagonisti delle nostre cronache nere. Portavano in petto il motto del Giubileo, «Peregrinantes in spem». Con le loro magliette verdi, sotto il cielo azzurro della Capitale, anche più del rosso porpora dei cardinali, rappresentavano quel «popolo di Dio» che—ha concluso il cardinal Re — «tiene alta la fiaccola della speranza».
La loro e la nostra.


Antonio Polito, Corriere della sera, 27.04.2025